giovedì 26 luglio 2018

GENITORI E FIGLI: LE CAUSE DELLA SCARSA COMUNICAZIONE

Le problematiche relative alla comunicazione tra genitori e figli, a mio avviso, non derivano dal progresso e dalle svariate tecnologie; spesso, molti genitori, acquistano strumenti tecnologici per fornire ai propri figli “un oggetto transizionale” o (esperienza transizionale), termine introdotto dallo psicoanalista Donald Winnicott per spiegare come un oggetto materiale sia capace di soddisfare, nel lattante, la rappresentazione di un qualcosa relativo al possesso e all’unione con la madre. L’oggetto transizionale di Winnicott era rappresentato da un orsacchiotto o da una copertina e la sua funzione era quella di fornire al bambino un modo per facilitare l’angoscioso passaggio dal me al non-me, dal mondo interno al mondo esterno, attraverso una zona intermedia, di margine, “tra me e l’altro”.
Nella società odierna, l’oggetto transizionale di Winnicott esiste, ma persiste nell’età preadolescenziale, in quanto viene fornito dai genitori, che per esigenze di vita regalano ai propri figli video games, cellulari e computers; Questi “oggetti”, creano una dipendenza psichica, poiché escludono il soggetto dal mondo esterno. Le basi della  comunicazione si costruiscono all’interno del nucleo familiare, costituita dalla triade (madre, padre e figlio); quando tutto ciò non avviene, o per meglio dire, il preadolescente o l’adolescente non viene ascoltato si creano dei disagi nella sfera sociale e soprattutto individuale. Infatti, molti adolescenti presentano dei sintomi legati alla mancata o alla scarsa comunicazione, come, per esempio: tic nervosi, balbuzie, stati d’ansia associati a stati depressivi e, in alcuni casi fenomeni di dissociazione. Alcuni bambini tra i 3 e i 5 anni  vengono definiti iperattivi; spesso l’iperattività esprime la rabbia accumulata e lo stato d’ansia  per la scarsa comunicazione, infatti questi bambini riescono a raggiungere un’ottima comunicazione con adulti esterni al nucleo familiare. In base alla fascia d’età è importante intervenire attraverso una psicoterapia individuale e successivamente familiare, per stabilire le cause e ristabilire una comunicazione soddisfacente.

Cristian Chiappetta
Psicologo-Psicoterapeuta

martedì 29 novembre 2016

Stalking: Teorie a confronto


Come spesso accade in questo tipo di fenomeni, si tende a rimanere ancorati a degli stereotipi culturali e a classificare gli eventi traumatici puntando il dito su un colpevole, tralasciando la vittima. A mio avviso, è necessario approfondire le dinamiche emotive che conducono ad una simile condotta. La stessa parola “Stalking” , dal verbo inglese “to Stalk”, che significa letteralmente “braccare, seguire, pedinare, perseguitare” ; viene utilizzata in modo improprio, soprattutto in  Italia. Attraverso la mia esperienza in ambito clinico e soprattutto svolgendo la professione di psicoterapeuta, mi è capitato spesso di intraprendere delle psicoterapie con pazienti vittime di stalking e stalker. In ambito terapeutico, credo che sia importante, valutare diverse variabili per poter tracciare un profilo psicologico o psicopatologico dello stalker; per quanto mi riguarda, occorre effettuare un’analisi differenziale, cioè, valutare prima il profilo della vittima e successivamente il profilo dello stalker. Dico questo perché, ciò che predomina nella relazione tra la vittima e il carnefice, è la mancanza di “principio di realtà”, ovvero una dispercezione dei fatti realmente accaduti. Quindi, come ho detto precedentemente, nel nostro paese la parola stalking viene usata impropriamente, anche dalle stesse vittime. In base alla mia esperienza clinica posso affermare che, a volte, le vittime diventano carnefici di se stesse. Dagli anni ’90, le teorie in merito a questi fenomeni sono tante, ma l’ambito psicoterapeutico, mi ha fornito diversi strumenti per poter tracciare delle ipotesi riguardo ai comportamenti sia della vittima, che dello stalker. Ho classificato così tre profili di stalker:

1)    Lo stalker “controllato”: cioè colui che attua un controllo sulla propria vittima, attraverso internet o effettuando dei veri e propri pedinamenti; sono soggetti che difficilmente compiono gesti di violenza. Spesso lo stalker viene inteso come un uomo o una donna che viene lasciato/a  dal proprio partner, ma a volte, non avviene tutto ciò. In alcuni casi clinici che ho seguito, per esempio, la vittima e il carnefice non avevano vissuto un legame duraturo nel tempo, ma al massimo si erano incontrati duo o tre volte. In questo caso lo stalker, cioè nei brevi incontri, aveva avuto modo di reperire le informazioni necessarie per stabilire una modalità di contatto con la vittima. Quando l’altro o l’altra, si accorge di alcuni comportamenti ossessivi e non vuole continuare la relazione o la conoscenza, si crea un distacco psicofisico, in cui lo o la stalker reagisce cercando una comunicazione con la vittima per attenuare quell’angoscia dovuta “all’abbandono”. Generalmente, lo stalker controllato, tenta di comunicare attraverso telefonate, sms, lettere, mail o anche scritte sui muri che creano un contatto con la vittima, facendola sentire osservata e sorvegliata.  Lo stalker controllato, non vive la relazione con la vittima attuando violenza fisica, ma psicologica, in quanto desidera manipolarla per renderla oggetto e fulcro della propria esistenza. Rivive nel rifiuto un abbandono, che non è riuscito a superare e che riesce a colmare attraverso un punto di fissazione, procurando a se stesso stati ansiogeni. In ambito terapeutico, lo stalker controllato ottiene ottimi risultati e di conseguenza anche la vittima, in quanto non si è verificato nessuno o qualche episodio di violenza fisica. 

2)    Lo Stalker “non controllato”: inizialmente attua le stesse modalità dello stalker “controllato”; cioè tutte attività che tendono a controllare la vittima in modo virtuale, oppure attraverso persone o familiari che hanno contatti ravvicinati con la stessa. Con questo tipo di stalker, ho avuto modo di carpire determinati atteggiamenti che sottolineano una marcata tendenza a manipolare la vittima, anche attraverso regali o mazzi di fiori recapitati a casa o in ufficio. Queste modalità, a mio avviso, hanno il potere di confondere la vittima e di creare un legame stretto con lo stalker; creando un “up and down” tra allontanamento e avvicinamento e tra sentimenti di odio e di amore. Il “non controllato”, quando non riesce ad avere dei contatti con la vittima, entra in uno stato ansiogeno e coglie ogni occasione per infliggere dolore attraverso la violenza fisica. Tra le diverse psicoterapie intraprese in ambito clinico, ricordo un episodio in particolare di una donna con poco più di trent’anni d’età, vittima di stalking già da due anni prima; inizialmente lo stalker era “controllato”, quindi agiva attraverso mezzi di comunicazione virtuali come internet, nel momento in cui si è verificato l’ennesimo rifiuto verbale molto violento da parte della vittima, lo stalker si è recato nel luogo in cui si trovava la donna e ovviamente, cogliendola di sorpresa, l’ha trascinata in un bagno dandole ripetute percosse e dopo averla stordita, con un taglierino le ha procurato ferite profonde al seno. Ho raccontato questo episodio per spiegare che il “non controllato” rientra in un profilo psicopatologico, e tale profilo, è caratterizzato da diversi fattori familiari e ambientali in cui lo stalker ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza e come si è proiettato nella vita adulta. Naturalmente, i fattori possono essere molteplici; uno tra questi è “l’abbandono” che troviamo anche nello stalker controllato, ma ben più grave è, l’abbandono legato alla violenza fisica subita dalla figura materna o la visione di atti violenti su altre persone. Durante le sedute di psicoterapia, molti stalker, hanno sempre affermato di ricordare la violenza del padre nei riguardi della propria madre, ed erano in grado di raccontare le scene violente nei minimi dettagli. Tutto ciò invita a riflettere su come il profilo dello stalker, da me denominato “non controllato” o psicopatologico, sia un sistema complesso di processi cognitivi sfalsati da una realtà colma di violenza e di manipolazioni psichiche da parte di persone che dovrebbero insegnare ad amare in modo sano. Invece, a parer mio, questo profilo di stalker rappresenta la figura del “Falso Sé”, in cui avviene una scissione in due parti; cioè un Sé manipolativo che tende ad attirare la vittima e renderla sua per un periodo di tempo, quando l’atto manipolativo non mostra più risultati, entra in azione l’altra parte del Sé, cioè quella schizoparanoide e quindi si pianifica l’atto o gli atti di violenza. Nella pratica terapeutica il “non controllato” richiede un lavoro esteso nel tempo che non si può definire, in quanto individualmente ogni stalker, ha delle difese psichiche che possono confondere lo psicoterapeuta, soprattutto nella pratica manipolativa in relazione ai fatti realmente accaduti.

3)    Il “falso Stalker”: E’ colui il quale diviene vittima pur essendo additato come stalker. Come ho detto prima, in Italia la parola Stalker viene utilizzata in modo improprio e spesso accade questo quando la donna è vittima di stalker. In relazione a ciò, in precedenza ho affermato che, è necessario effettuare un’analisi differenziale in ambito terapeutico, per tracciare un profilo psicologico o psicopatologico, prima sulla vittima e poi sullo stalker. Credo che questo tipo di azione sia necessaria per capire i tratti di personalità, e se, la vittima stia mentendo su fatti che crede realmente accaduti e soprattutto per la gravità delle azioni commesse dal presunto Stalker nei riguardi della sua persona. Sicuramente chi mente su questioni gravi come queste potrebbe essere una o uno psicotico che possiede una visione distorta della realtà. Solitamente, una personalità psicotica, con mancanza di principio di realtà crede che quanto affermato in relazione ad un’aggressione o un pedinamento da parte di un’altra persona sia la realtà e ne rimane fermamente convinto. Succede spesso di incontrare nei percorsi terapeutici soggetti psicotici che si procurano delle ferite o ematomi per rendere credibile agli occhi del terapeuta una violenza non procurata da altri. Persone del genere hanno delle manie persecutorie, cioè; nel loro percorso di vita si sono sempre sentite perseguitate o non sono state mai ascoltate dalle figure genitoriali. Tutto ciò ha generato un Sé distorto che, gli garantisce visibilità al centro di una scena. Purtroppo il soggetto psicotico viene alimentato, a volte, dai mass media che, giustamente ci informano ma amplificano la realtà distorta di queste persone che prendono spunto da ciò per creare una realtà personale che, ahimè include persone innocenti. E’ importante filtrare in modo adeguato le informazioni riguardo allo stalking  per evitare disagi psichici sia alle vittime reali che ai falsi stalker.

E’ ovvio che, oggi, esiste una classificazione molto utilizzata in ambito internazionale, in quanto serve per valutare diverse variabili, quali la persistenza dello stalking, lo scopo dei comportamenti, quali sono i rischi di violenza e la risposta che un trattamento terapeutico può determinare. Chiaramente i dati che si ottengono si riferiscono ad un campione che risulta utile ad un fine predittivo. La classificazione è stata effettuata nel gruppo di Melbourne dal Prof. Mullen che ha presentato diverse tipologie di Stalkers divise in cinque punti principali:

1)    “Il Rifiutato”: Cioè colui che mette in atto delle molestie assillanti nel momento in cui il partner decide di interrompere il rapporto. In questo caso lo stalker cerca in tutti i modi di ristabilire un contatto e di vendicarsi perchè avverte il rifiuto come un’umiliazione agli occhi degli altri. Ciò che caratterizza le emozioni del rifiutato è lo stato di separazione, che genera rabbia e soprattutto timore che la persona amata sia insostituibile. Questa tipologia risulta essere la più pericolosa tra gli stalkers, in quanto esegue un controllo ossessivo e perseguita la vittima per cercare di mantenere la relazione.

2)    “IL Risentito”: Cerca per lo più di intimorire la vittima, e spesso, sono persone che condividono lo stesso ambito di lavoro, quindi colleghi o datori di lavoro. Lo scopo è quello di punire il soggetto per un torto subito e d è fortemente convinto che il suo comportamento sia giustificato. Il risentito, quindi, si percepisce come vittima che lotta contro il suo oppressore; in realtà è un processo di proiezione, cioè associa alla sua vittima le persone che in passato lo hanno tormentato o umiliato. Secondo Mullen, il gruppo dei risentiti presenta un disturbo paranoide associato anche ad abuso di sostanze.

3)    “Il cercatore di intimità”: Generalmente è colui che cerca di costruire una relazione di amicizia o di amore, ma non cerca incessantemente la sessualità. In realtà vive una relazione fantasticata con un partner che può essere uno sconosciuto o un conoscente e, rimane indifferente alle risposte negative da parte della vittima. Investe nella relazione con la vittima tutte le sue energie mentali, uscendo fuori dal tunnel della solitudine e credendo che i suoi sentimenti siano ricambiati, imputando alla vittima di avere qualche blocco nella sfera affettiva che non gli consente di amare. Mullen afferma che è la forma di stalking più persistente, in quanto dura in media tre anni e viene attuata per lo più da donne con disturbi psicotici.

4)    “Il corteggiatore incompetente”: E’ quel tipo di stalker che non riesce ad entrare in sintonia con il partner desiderato. Il suo scopo è quello di entrare in confidenza con la persona che lo attrae. Generalmente il corteggiatore incompetente è rappresentato dall’uomo che assume la figura del macho ed è convinto che le donne debbano subire il suo fascino. Se non ottiene ciò che vuole diventa aggressivo e maleducato; ma questo suo bisogno di possesso e di conquista lo porta a considerare l’altro come un semplice oggetto ai cui sentimenti è del tutto insensibile. Rispetto agli altri stalkers, il corteggiatore incompetente, mette in atto condotte di stalking  nei confronti di più vittime e quando non ottiene risultati immediati cerca subito un altro bersaglio. Di solito, questi soggetti possono avere deficit cognitivi o un basso livello culturale.

5)    “Il predatore”: Colui che cerca la propria gratificazione nella sfera sessuale, per cui, il suo scopo è sempre quello di avere un rapporto sessuale con la vittima. Il predatore prova soddisfazione e un senso di potere nell’osservare la vittima di nascosto, nel pianificare l’agguato senza minacciare o lasciar trapelare in anticipo le proprie intenzioni. I predatori, sono sempre di sesso maschile e vengono spesso arrestati per molestie o omicidi e, risultano pericolosi perché attaccano la vittima di sorpresa. Questa categoria, afferma Mullen, è spesso affetta da parafilie, disturbi bipolari, disturbi di personalità e in alcuni casi abuso di sostanze.

Di Cristian Chiappetta
Psicologo - Psicoterapeuta
Università di Roma La Sapienza

mercoledì 26 ottobre 2016

I DISTURBI DEL SONNO

Sono molte le persone che riferiscono di avere dei disturbi del sonno e spesso non hanno modo di capirne le cause o la causa. I disturbi del sonno vengono catalogati, in genere, in tre categorie: parainsonnie, russamento, apnea e insonnia. Le parainsonnie più comuni sono il bruxismo e il sonnambulismo; il primo è l'atto di muovere e di grignare i denti mentre si dorme, il secondo riguarda la deambulazione durante il sonno, che colpisce frequentemente i bambini. Mentre nel russamento le cause possono essere molteplici; come obesità, fumo, allergie, raffreddori e tutto ciò che influisce sulle vie respiratorie, causando una scarsa qualità del sonno a se stesso e a chi è costretto ad udire le vibrazioni che vengono emesse. In caso di apnea notturna, il sonno viene interrotto dalla mancanza d'aria e può essere compromessa la vita del soggetto stesso. Chi soffre di questo disturbo ha generalmente un umore instabile. Per chi riferisce di soffrire di insonnia le cause sono diverse e riguardano prettamente la sfera psichica, come in gran parte le sopra citate. Nella pratica terapeutica, molti pazienti, che soffrono di disturbi d'ansia generalizzata, esplicano la difficoltà a prendere sonno oppure affermano di dormire male. In entrambi i casi, ho avuto modo di constatare, che i fattori ansiogeni generano delle tensioni che si localizzano nella parte lombosacrale, negli arti inferiori e a livello delle scapole. Per questo motivo è importante, a mio avviso, oltre al colloquio clinico, far comprendere al paziente che per una migliore qualità del sonno è necessario conoscere i punti deboli del proprio corpo, che accumulano lo stress nelle ore diurne e notturne. L'ansia e di conseguenza lo stress che crea le contrazioni muscolari possono essere affievolite mediante degli esercizi corporei da attuare nello spazio terapeutico e successivamente da ripetere prima del riposo notturno. Voglio ricordare che la perdita di sonno, la percezione di dormire male e le contrazioni muscolari, causano umore instabile e in alcuni casi generare crisi d'ansia o attacchi di panico. Tuttavia, spesso si incorre in cure palliative, ancorandosi a farmaci o alcool, o credendo di avere dei disturbi fisiologici. Il corpo non è altro che un messaggero, ovvero, rende manifesto ciò che la psiche tenta di celare.

Di Cristian Chiappetta
Psicologo-Psicoterapeuta

domenica 23 ottobre 2016

SAD: Disturbo Affettivo Stagionale

 L’inizio della primavera è sempre un periodo molto atteso ma è anche una fase piuttosto difficile dal punto di vista psicofisico per gli effetti che il cambio di stagione  ha sulla nostra fisiologia, sullo stile di vita e sull’umore. Così disturbi temporanei come stanchezza, sonnolenza, depressione, senso di malessere generale, possono essere frequenti.Il cambio di stagione è un momento critico anche per chi già soffre di depressione poiché le sollecitazioni  acutizzano i disturbi preesistenti. Molti aspettavano con ansia l’uscita dall’inverno, altri guardano al nuovo cambio di stagione con un po’ di apprensione. Può succedere, infatti, che il passaggio dall’ora solare a quella legale (e viceversa) rappresenti un momento critico in grado di scombussolare i nostri equilibri neurochimici, provocando uno stato di malessere molto vicino alla depressione. Se all’inizio della primavera o con l’arrivo dell’autunno regolarmente cominciate a sentirvi stanchi, irritabili, apatici, con ogni probabilità soffrite di un Disturbo Affettivo Stagionale (SAD), legato all’influsso delle variazioni climatiche sul sistema endocrino. Già Ippocrate nel 400 a.C. descriveva una depressione legata alle stagioni, ed anche oggi circa il 25% della popolazione, va incontro a cambiamenti dell’umore, del sonno e dell’attività socio-lavorativa. In particolare, quando i mutamenti sono ciclici, ad ogni inizio di primavera (in percentuale minore) e d’autunno, si può presentare quello che scientificamente viene definito disturbo affettivo stagionale (SAD). Il SAD (Seasonal Affective Disorder, sigla coniata da Rosenthal  nel 1984) è un disturbo ciclico dell’umore vero e proprio ed è descritto anche nella guida ai disturbi psichiatrici, il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder) come modalità di decorso dei disturbi dell’umore. Colpisce circa il 2-3% della popolazione europea in una fascia di età compresa fra i 20 e i 40 anni, con una maggiore incidenza nelle donne. I sintomi sono facilmente diagnosticabili: stanchezza, irritabilità e sbalzi d’umore, scarsa concentrazione, apatia, eccessivo appetito con forte desiderio di mangiare cibi ad alto contenuto di carboidrati, ed infine ipersonnia e letargia. Le cause non sono ancora chiare, le ricerche condotte finora suggeriscono che la ragione è da ricercare nelle variazioni climatiche di temperatura, umidità e pressione, in grado di influenzare alcune sostanze chimiche (neurotrasmettitori) responsabili del nostro umore, primo tra tutti la serotonina.  Soprattutto la variazione di luce solare influirebbe sulla produzione di questo neurotrasmettitore che regola anche il ciclo di sonno-veglia e di melatonina, ormone anch’esso coinvolto nella regolazione del sonno, “inceppando” la capacità di adeguare e sincronizzare i ritmi fisiologici e causando stress, inizialmente solo fisico e poi anche psicologico. Nella maggioranza dei pazienti con SAD infatti i livelli di melatonina, che viene prodotta durante la notte, non presenterebbero le normali fluttuazioni, rimanendo alti per circa due ore in più rispetto al normale. In primavera così, il nostro corpo si prepara al caldo con variazioni endocrine, e alla maggiore esposizione della luce varia il livello di secrezione di melatonina. Se questa variazione provoca livelli di produzione anormali (troppo alti o troppo bassi), è stato documentato che possono comparire sintomi collegati a disturbi psichici. Con il cambiamento dell’ora legale, inoltre, il nostro corpo deve adeguarsi alle modificazioni dell’orologio solare: un processo lento che si può paragonare a quello che avviene quando siamo soggetti ad un cambiamento di fuso orario. Col passaggio alla stagione invernale, invece, quando l’esposizione alla luce diminuisce, si è osservato che i livelli di trasportatori della serotonina, che servono a rimuoverla, aumentano. Questi trasportatori troppo veloci provocherebbero una eccessiva riduzione della concentrazione del neurotrasmettitore, che trasformato permette, tra l’altro, la sintetizzazione della stessa melatonina. Con buoni risultati, ma ancora non scientificamente provati, il SAD potrebbe essere curato con la melatonina, già utilizzata contro la sindrome del jet-lag e, anche se i pareri medici sono discordanti, contro l’insonnia. Inoltre, in Europa Settentrionale, non a caso la zona più colpita da questo tipo di depressione, nei mesi autunnali ed invernali è diffusa  la “bright light therapy”, ovvero la fototerapia, in cui il paziente viene esposto a una sorgente luminosa superiore a 2000 lux. Quando è efficace, la fototerapia si caratterizza per la precocità del miglioramento sintomatologico e la scarsità di effetti collaterali. È molto importante intraprendere un percorso di psicoterapia individuale e, successivamente, partecipare a degli incontri di gruppo, che attraverso la socializzazione, aiutano il soggetto a condividere la propria fragilità emotiva, riducendo notevolmente gli stati ansiogeni e gli stati depressivi.

Dott. Cristian Chiappetta
Psicologo - Psicoterapeuta



giovedì 20 ottobre 2016

Disturbo Post - Traumatico da Stress


La definizione ufficiale del Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) presente nel DSM si basa su un modello concettuale che lega eventi traumatici catastrofici di gravità minore a un ben definito quadro clinico, sostanzialmente identico in tutti coloro che hanno sviluppato il disturbo. Il DPTS è attualmente classificato tra i disturbi d'ansia e si manifesta con una serie di sintomi innescati dall'esperienza che l'individuo fa di eventi traumatici stressanti, come la personale esposizione alla perdita di una persona cara, a situazioni che implicano minaccia alla propria integrità fisica, a quelli di familiari o amici stretti, come ad esempio la presenza di una grave malattia, una morte violenta ed altri eventi dolorosi di fronte ai quali la persona prova un sentimento di impotenza, di orrore e terrore. I principali sintomi associati al DPTS possono essere raggruppati in tre categorie e per poter porre una diagnosi di questo tipo devono avere una durata di almeno un mese e compromettere in maniera significativa le aree di funzionamento globale dell'individuo esposto all'evento traumatico. Si possono generare dei sintomi "intrusivi", che riguardano immagini frequenti o incubi che fanno rivivere l'evento traumatico; percezioni e sensazioni (suoni, sapori e odori) che richiamano alla mente l'evento anche contro la volontà  della persona. Si può provare notevole disagio quando ci si trova di fronte a situazioni che in qualche modo ricordano l'episodio traumatico. Esistono dei sintomi di "evitamento e di attenuazione della reattività  generale", in cui la persona traumatizzata cerca di evitare i pensieri, i ricordi, le sensazioni, le emozioni ed i discorsi relativi al trauma, e soprattutto fa ogni sforzo per non ricordare e non trovarsi con persone presenti nella tragica circostanza o in luoghi che gli possono evocare l'evento terrificante. Si può verificare nella sintomatologia la "ipereccitabilità", che crea difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno, concentrarsi su un compito, reazioni esagerate di allarme o di paura e rabbia eccessiva. Questi sintomi possono comparire immediatamente dopo l'evento traumatico ma anche a distanza di molti mesi. Risulta efficace per il DPTS una psicoterapia con approccio dinamico che aiuta il paziente a diminuire il grado d'ansia e gli altri sintomi correlati all'evento traumatico. È consigliabile in questo caso un trattamento farmacologico e psicoterapico, in quanto con il solo impiego di psicofarmaci si produce una risoluzione momentanea dei sintomi.

Di Cristian  Chiappetta 
Psicologo-Psicoterapeuta 

martedì 26 gennaio 2016

OBESITÀ: ASPETTl PSIC0L0GICI


L'obesità può essere considerata come una condizione morbosa con cause multifattoriali, tra le quali una predisposizione genetica, i fattori ambientali, lo stile di vita, fattori psicologici e socio-culturali. I fattori genetici hanno un ruolo importante nel determinare l'obesità. Anche l'ambiente in cui viviamo può favorire l'aumento di peso; ad esempio, un bambino obeso, se vive in una famiglia con adulti obesi, avrà molte più probabilità di diventare un adulto obeso. È importante avere un corretto stile di vita per controllare il proprio peso, cioè fare attenzione a cosa si mangia, e praticare attività fisica giornaliera e costante. La fame è regolata da meccanismi fisiologici che ne bloccano lo stimolo una volta che l'organismo si è nutrito a sufficienza. In alcuni casi, tali processi vengono alterati da comportamenti alimentari irregolari che inevitabilmente sfociano nell'obesità. Associati all'obesità, ci possono essere sintomi psicopatologici quali: ansia, depressione, scarsa autostima, insoddisfazione corporea, relazioni interpersonali problematiche, difficoltà nel gestire le emozioni. In realtà, dal punto di vista psicologico, come da quello medico, l'obesità si presenta come un quadro estremamente complesso. Esiste una classificazione che tiene conto sia del comportamento alimentare sia dell'assetto cognitivo ed emotivo, da cui si possono individuare tre principali tipologie di soggetti obesi: gli "iperfagici prandiali"; che assumono grandi quantità di cibo, prevalentemente durante i pasti. Si tratta di un profilo caratterizzato dal piacere per il cibo, dal controllo sulle quantità assunte, dall'aspetto prevalentemente conviviale legato ai pasti e dalla assenza di malessere psicologico legato all'assunzione degli alimenti stessi. Tra gli iperfagici prandiali si possono distinguere due categorie: i golosi e i divoratori. I golosi amano il cibo e tutto quello che ne permette una assunzione il più possibile appagante, a cominciare dalla compagnia con cui si va a tavola. I divoratori tendono a privilegiare la quantità sulla qualità, raramente preparano i piatti che poi consumeranno in compagnia, mangiano più velocemente dei golosi senza peraltro perdere il controllo sulla quantità. I "grignotteurs" o mangiucchiatori, ingeriscono piccole quantita di cibo, soprattutto dolci e grassi, quindi alimenti altamente calorici, durante buona parte della giornata. Il grignotteur, così come l'iperfagico prandiale, mangia lentamente e apprezza quello che sta mangiando, a differenza del primo però, spesso mangia in risposta a noia, ansia o malesseri fisici vari. In ultimo, il "binge eating disorder" o disturbo da alimentazione incontrollata; è una sindrome molto più grave e complessa dal punto di vista psicologico. Il comportamento alimentare di questi soggetti è caratterizzato da abbuffate episodiche, accompagnate da perdita di controllo e seguite da deflessioni dell'umore. Per abbuffata si intende un episodio alimentare caratterizzato dall'introduzione di una grande quantità di cibo, superiore a quella che la maggior parte delle persone mangerebbe in un periodo di tempo e in circostanze simili. Questi soggetti, tendono ad avere un'obesità di grado elevato. Sono necessari, a mio avviso, un'adeguata educazione alimentare e un approccio psicoterapico mirato, per diminuire il grado d'ansia generato dal "punto di fissazione" cioè, il cibo. La psicoterapia dinamica correlata alla bioenergetica, che si occupa principalmente dell'integrazione tra mente e corpo, offre degli ottimi risultati per l'eliminazione dei blocchi emotivi e di conseguenza quelli corporei.
Di Cristian Chiappetta Psicologo-Psicoterapeuta
(Estratto da Health Magazine-Rivista Medico-Scientifica di Salute e Nutrizione, Gennaio 2016)