lunedì 17 novembre 2008

Articolo: L'uomo del mio tempo


Quasimodo diceva: “Tu uomo del mio tempo senza Cristo e senza remora”. Io la definirei una frase ricca di contenuti che rispecchiano l’uomo della società odierna. Ho preso in esame questo argomento perché ultimamente sto riscoprendo una società, oserei dire, deviata e progressivamente cangiante. Molti direbbero che si sono persi i “valori”, secondo me si è persa la “moralità”, forse si è nascosta nei meandri di un passato ormai remoto o in un vago ricordo, di chi vago lo ha ma non lo applica! È un pò tardi per recriminare, ma “recriminando mi appago” diceva il mio grande Maestro Aldo Carotenuto. Ma la morale in realtà cos’è? Nasce da un Io che si struttura nell’ambiente affettivo o è dominata da un falso Sé altalenante tra il bene e il male? Direi entrambe le cose, in quanto, l’Io scorge le basi nel rapporto con la madre e successivamente nella triade (madre, padre, bambino); quando viene meno tutto ciò, il Sé di conseguenza si destabilizza, e inevitabilmente oscilla tra il bene e il male o sceglie quest’ultimo, su cui si sagomerà la sua personalità. Ma la psicologia non è una scienza che tira a indovinare dove si trovano il bene e il male, è solo uno strumento che aiuta a capire se stessi, mentre capire gli altri deriva da noi stessi; cioè come li percepiamo in base al nostro equilibrio psichico. L’uomo del nostro tempo, dunque, non si discosta da quello che affermava Quasimodo, cioè: “senza Cristo e senza remora”. Un uomo che non si ferma di fronte a nulla e che vive nel nulla. Siamo tutti d’accordo sul fatto che la società sta cambiando progressivamente, e che gradualmente i valori e la morale stanno scomparendo. Vediamo spesso in televisione avvenimenti di cronaca in cui le madri uccidono i figli, come il “caso Franzoni”; anche se, a mio avviso, ciò che accade in questi casi non sia imputabile alla società in continuo mutamento, ma bensì, a una psipatologia grave. Molti pensano che i casi di cronaca, in genere, si verifichino perché la società è “malata”, come alcuni enunciano. La società è costituita da tutti gli esseri umani, anche coloro che sono affetti da una psicopatologia grave, e tutti sviluppano delle problematiche relazionali dovute all’ambiente affettivo e accentuate da fattori esterni che influiscono positivamente o negativamente. Ma i valori e la moralità non sono mutati nel tempo perché prima si andava dal lattaio e ora si va nei centri commerciali per un litro di latte, certo indubbiamente in parte tutto ciò ha influito, ma quello che ho notato è un decadimento dei rapporti sociali e come l’individuo si relaziona all’interno della famiglia. È un discorso a ritroso che prende in esame la figura del bambino in chiave prettamente psicologica; quel bambino non ascoltato, che non vive in una famiglia amorevole, magari vittima del consumismo. Un bambino che urla perché vuole affetto, ma il genitore preso dal panico gli offre qualcosa di materiale, un amore di plastica, al posto di un contatto tattile e visivo; così il bambino svilupperà la capacità di star solo ma con una grande angoscia devastante che porterà con sé fino all’ultimo giorno della sua vita terrena. Un bambino non amato sicuramente riuscirà ad amare, ma con difficoltà. Allora se le figure genitoriali non hanno un rapporto empatico con i propri figli, si troveranno alla mercé della società, e sarà la loro unica famiglia, che darà alla luce un bambino e successivamente un uomo “senza Cristo e senza remora”.

Cristian Chiappetta

giovedì 13 novembre 2008

Pensieri e Poesie: "La Giustizia Imperfetta"


Quando si parla di giustizia, si apre inevitabilmente una breccia anche all'interno della psicologia umana, giacché è mia convinzione che il diritto nasca necessariamente come sentimento, ancor prima che come sistema giuridico complesso e razionale. In qualunque relazione ci si ponga con il mondo esterno, non si può non riscontrare un desiderio primario di comprensione, di difesa e di realizzazione, nel nostro agire. L'uomo nasce solo, nell’illusione onnipotente che ciò che lo circonda sia un’appendice della sua volontà e dei suoi bisogni; e, almeno in questo stadio, non esiste legge o morale che tenga, ma solo la necessità di sopravvivere. In un'altalena di soddisfazioni e frustrazioni, il bambino - la cui ingenuità può essere intesa anche come 'malvagità' primaria - si avvede che deve fare i conti con una realtà indipendente. Ecco che nasce la coscienza, come conoscenza del limite, di ciò che non è consentito fare. Improvvisamente, ma solo per un breve periodo, il mondo esterno ed interno assumono i tratti della distruttività, della casualità e della minaccia... ma l'unilateralità può diventare mortale se non si ristabilisce un equilibrio, un'antitesi. Nascono, così, in risposta a un non-senso, gli archetipi del bene e del male. Il 'bene' è la nostra volontà di vivere, a cui si oppone il 'male' come negazione, imposta dall'esterno, del nostro desiderio. Siamo ancora in una prospettiva 'monoculare', dove tutto viene rapportato al soddisfacimento o meno dei bisogni individuali, e la vita stessa è una lotta continua. Successivamente, per sanare questa tensione e questo conflitto permanente con la realtà, saremo indotti ad ammettere che è necessario adattarsi ed adattare. Esterno e interno cominciano a dialogare, definendo gli accordi che assicureranno una 'pacifica' convivenza: nasce, dunque, il "diritto" a vivere e lasciar vivere. Detto così può sembrare tutto molto semplice e lineare, ma allora perché le cose non funzionano? Perché la legge non viene rispettata? Perché il diritto, pur dovendoci tutelare, si rivolta contro di noi? Hobbes diceva "homo homini lupus" e, con questo, chiudeva ogni discussione sulla natura umana. Ma davvero è così semplice? Probabilmente no, perché - come in tutti i patteggiamenti - c'è sempre qualcuno che, strada facendo, cambia le carte in tavola; e magari non necessariamente perché è disonesto, ma perché sono cambiati la sua condizione, le sue esigenze, i suoi bisogni. Nulla nel mondo della natura può dirsi 'dato' e immutabile. Il nostro modo di guardare l'universo, cambia in continuazione, soprattutto perché cambiano gli affetti e le disposizioni interiori, le domande e le risposte: quello che era giusto all'epoca degli antichi romani, può non esserlo più oggi, e viceversa. Purtroppo, la crescente complessità delle nostre strutture sociali, cognitive, culturali e giuridiche ha portato a un progressivo allontanamento della risposta dalla domanda. Capita allora che il sistema cambi più lentamente, o in maniera inadeguata, rispetto alla coscienza individuale; così come l'individuale cambia sempre più repentinamente del collettivo. Come giustamente ci fa notare l'autore, il sistema è diventato impersonale - e io aggiungerei razionale - al punto da non rispettare più il singolo in quanto uomo, dotato di emozioni. Non Dimentichiamo infatti che prima del 'giusto modo di pensare' viene sempre il ‘giusto modo di sentire'. Quando questo divario, tra personale e impersonale, tra senso comune e legge, diventa troppo grande si apre inevitabilmente una voragine, in cui impera la "giustizia delle grida". La trasgressione, allora, può diventare il modo più immediato per far valere le proprie ragioni, a fronte di un sistema che non vuoI sentire ragioni. Ma dietro di essa c'è sempre una domanda irrisolta, che sarà difficile far tacere con la semplice repressione. Si dice che la voce della coscienza è debole, ma persistente e, quando rimane troppo a lungo inascoltata, può diventare un grido. Non si può chiedere a un uomo di rinunciare, sempre e in ogni caso, a favore di un bene sommo e irraggiungibile; perché a fronte di quella rinuncia, i cui effetti collettivi si perdono nel nulla, c'è la morte spirituale di un uomo. Se Galileo Galilei o Giordano Bruno avessero rinunciato a vivere, a pensare con la propria testa, a seguire i propri sentimenti, il danno collettivo sarebbe stato ben maggiore della momentanea destabilizzazione della legge! "Eppur si muove". Dentro, qualcosa continua a muoversi e a tormentarci, anche se vorrebbero farci credere il contrario. Uno dei grandi limiti della giustizia è proprio quello di non rispettare più la voce della coscienza, esattamente come la coscienza trasgressiva non rispetta più la legge: le trattative si sono interrotte; siamo tornati alla logica della lotta per la sopravvivenza del più forte. L’assurda pretesa di voler perseguire il 'vero' e il 'giusto', come se fossero forme eterne e apriori, anziché umane tensioni soggette al cambiamento, può portare solo al dogma e al totalitarismo... insomma, all'ingiustizia e al rancore. L'autore ci fa notare, con un accurato excursus storico, come la retorica, arma dell'uomo di legge, si sia trasformata - nei secoli - da disciplina della rettitudine in abilità manipolativa, da strumento atto a rivelare il vero - almeno così la intendeva Socrate - a strumento per nascondere la verità. La parola, dunque, si è asservita alla fredda razionalità del calcolatore, invece che al pathos dell'anima. Con ciò è diventata lettera morta, ancor prima di essere pronunciata: l'estraneità dell'uomo alla legge si fa sempre più pronunciata, perché quello che si sente dire in un’aula di tribunale assomiglia molto di più ad un calcolo ben fatto, che a un afflato di giustizia. Probabilmente la propensione che talune persone hanno per la pena di morte è proprio l'estremizzazione di questo bisogno di tornare ad una giustizia a misura d'uomo, che parli la lingua dell'uomo, anche se in questo caso è la lingua della sua brutalità. Il proposito con cui Cataldi conclude il suo libro, ossia quello di recuperare la coscienza come fonte di diritto, mi sembra assolutamente centrato. Non si può porre fine ad uno stato di malessere in altro modo che ascoltando e interpretando le sue ragioni o, ancor prima, le sue emozioni.

Aldo Carotenuto

domenica 2 novembre 2008

Pensieri e Poesie: Il linguaggio dei sentimenti


Naturalmente i sentimenti hanno un loro linguaggio: un linguaggio un po' speciale. Molte volte, ad esempio, il sentimento non usa dei linguaggi, bensì delle modalità espressive che possono manifestarsi, per esempio, attraverso gli occhi. Esiste tutta una letteratura intorno al linguaggio dei sentimenti: a quale linguaggio vogliamo far riferimento? In genere, quando si parla di sentimenti, ci si riferisce al linguaggio emotivo, che si genera tra due persone che si vogliono bene.
Volersi bene è un fatto misterioso. Ad un certo punto noi diventiamo necessari per un'altra persona e un'altra persona diventa necessaria per noi: allora sono proprio quelle braccia che noi vogliamo, braccia che non sono intercambiabili con altre. Questo avviene perché ha luogo un processo attraverso il quale noi diamo un significato. In altre parole quella persona ci interessa in quanto è significativa, cioè carica di un processo, carica di una serie di dimensioni che sono tutte nostre, che noi adattiamo a questa persona, che allora diventa come un nostro organo. Questo è talmente vero che quando, come fatalmente spesso avviene, c'è una frattura fra me e la persona che io amo, che desidero, io ho l'impressione che mi venga strappato qualcosa. Lo dicono anche le canzoni melodiche, le canzoni che parlano del sentimento: "tu che mi hai portato via il cuore, tu che mi hai strappato l'anima". Tutte queste dimensioni, che sembrano piuttosto spicciole, di poco conto, in realtà alludono a esperienze psicologiche molto importanti. La vita emotiva è legata a un linguaggio, che è poi significatività. Allora quel colore degli occhi, quell'espressione del viso, quel colore della pelle, quel modo di muovere i capelli, diventano per me un linguaggio che va letto e interpretato.
Certo la psicanalisi ci dice che in fondo questo mondo, che io vivo in questo momento e che sembra non avere riferimenti, in realtà ha un riferimento molto antico. Non sorprende che possa esser vero il fatto che in fondo, se le prime esperienze di sentimento sono state fatte nell'ambito della famiglia, è chiaro che queste esperienze si ripercuotono poi nella vita di tutti i giorni, da adulto. E allora sembra che una persona, se cerca degli occhi, uno sguardo, cerca in fondo lo sguardo della madre. Ma questo è tutto sommato poco significativo: così come ho imparato un linguaggio attraverso il quale mi esprimo, così ho imparato poi un nuovo linguaggio, che è quello dei sentimenti, della carezza.
Durante l'analisi è interessante vedere che alcune persone, quelle che noi comunemente definiamo "sfortunate in amore", non conoscono la grammatica del linguaggio amoroso. Quindi succede che non sanno interpretare le parole, i segni, e sbagliano sempre. Naturalmente questa mancanza di capacità interpretativa ha ragioni psicologiche ben profonde: ed è su queste ragioni psicologiche che fa leva il lavoro dell'analista.

Aldo Carotenuto